di Marcello Milazzo
Ridda di ricostruzioni intorno alla drammatica e raccapricciante vicenda del suicidio di Seid Visin, il giovane ex calciatore delle giovanili del Milan, di origini etiopi, adottato da bambino da una coppia di Nocera Inferiore, che all’età di soli vent’anni, ha deciso di togliersi la vita.
Da una lettera pregressa, in cui il giovane denunciò nel 2019, la sua condizione di disagio, e la denuncia nei confronti di episodi di razzismo a cui aveva dovuto far fronte, difatti una parte dell’opinione pubblica ha cavalcato l’onda delle motivazioni discriminatorie e razziste, nell’analisi dell’estremo gesto del ragazzo, anche se i genitori hanno subito smentito, che la chiave di lettura razzista possa essere alla base della decisione del ragazzo di togliersi la vita.
Speculazioni o meno, la lettera di sfogo esiste e lascia riflettere, con il giovane che citava, le sue diffuse sensazioni di malessere: «Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano.
E continuava: «Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera».
Poi ancora, cavalcando denunce razziste: «Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro».
Sempre più in preda all’amarezza: «Era come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco».
Fino alla confessione del suo tentativo di omologazione, al fine di farsi accettare dagli altri: «Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato».
Sicuramente quello di due anni orsono, del ragazzo ex baby Milan, e Benevento, era uno sfogo, legato al periodo, e che racchiudeva insieme, oltre che denunce razziste, anche i suoi malesseri verso una società in cui non riusciva ad affermarsi e ad integrarsi in genere, verso un mondo sicuramente un po’ malaticcio e precario, in cui un fragile giovane oggi, fatica a trovare la sua giusta dimensione.
Ed anche quello che sembra il messaggio finale di quella terribile lettera di sfogo dell’epoca: “ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”, non può che far riflettere, su un attuale contesto in cui aleggiano ancora i fantasmi della disgregazione e dell’alienazione, ed in cui evidentemente, la solidarietà diffusa, non basta ancora, rispetto ai malesseri rilevati.